Ah, Aruba

No, non è vero che da questa pandemia ne usciremo migliori. E non é nemmeno vero che cambierà per sempre il nostro modo di interagire.

So che sarà così perché sto trascorrendo i quindici giorni necessari per poter rientrare a casa a New York in uno dei pochi paesi disponibili nella lista che Trump ha fatto (e mai aggiornato) a marzo del 2020.  Quella secondo cui, se risiedi negli USA ma non hai la Green Card o la cittadinanza americana, sei obbligato a sostare per quindici giorni in un paese che non faccia parte del suo travel ban.

Abbiamo scelto Aruba, una piccola meravigliosa isola dei Caraibi Olandesi perché vicina a New York (4 ore circa di volo), perché ha pochi casi di Covid e un sistema sanitario buono. 

Per entrare è necessario avere un test molecolare negativo effettuato non prima di 72 ore dalla data di arrivo, oppure si può effettuare in aeroporto e restare in casa (o in hotel) fin quando il risultato di negatività non sarà pronto. In caso di positività, invece, quarantena obbligatoria. Io ho effettuato il test a Roma prima di partire ed essendo risultata negativa, ora posso muovermi liberamente. 

Gli alberghi di lusso sono molti e si estendono sulla costa ovest. Quella est ha spiagge impraticabili e location desertiche che vale la pena visitare attraverso il parco nazionale. Se invece ci si vuole rilassare lo si può fare sulla costa ovest, piena di spiagge bianche e mare calmo.

Per soggiornare, invece che un albergo, abbiamo scelto una delle casette di Haiko, ex avvocato olandese che due anni fa ha venduto tutto e si è trasferito qui: ha comprato un terreno, costruito una piscina e cinque mini loft in aggiunta a uno più grande dove abita lui insieme alla sua dolcissima cagnolina Sasha. Gli appartamenti hanno tutto ciò che serve, compresi una cucina privata all’aperto e un arredamento minimal in stile scandinavo.

Sull’isola c’è poca gente. Non so se normalmente sia così o meno. Tutti ti salutano cordialmente e se conosci lo spagnolo è abbastanza facile capire il papamiento, la lingua locale (un mix tra olandese, dialetto locale, spagnolo, e con accento che ricorda il portoghese). 

Ci si guarda tra turisti (riconoscibili anche dalle targhe delle macchine che è obbligatorio affittare – che nel caso di non residenti hanno la targa che inizia con la V di visitor e non con la A di Aruba) come se fossimo i sopravvissuti di The Walking Dead: un po’ di diffidenza perché siamo comunque nel bel mezzo di una pandemia, ma anche con una sottintesa consapevolezza che si sta condividendo un’avventura. Sia che si tratti di europei residenti negli USA come me, che di olandesi alla ricerca di un po’ di sole, che di turisti americani della costa Est in fuga da una possibile guerra civile, c’è un’implicita sensazione di avere un pezzo di vita in comune. 

Si mantiene la distanza sulle spiagge, e le mascherine si indossano solo all’interno dei pochi negozi o dei ristoranti. Ma non ci vuole molto tra la sabbia, il sole, le onde di un mare tiepido e l’ombra delle palme, a dimenticare che il mondo si sta aggrappando a uno scoglio che fa fatica a reggere tutti senza affondare esso stesso. 

Con il canto degli insetti, il fruscio delle foglie degli alberi, il rumore dell’acqua, il Covid sembra solo un ricordo. Tanto che a volte ci si dimentica di restare distanti pur essendolo completamente, sia fisicamente che psicologicamente

Ecco perché sono sicura che quando tutto questo passerà torneremo alla vita di prima, alla stessa identica vita di prima.

Un po’ perché siamo programmati alla sopravvivenza, un po’ perché l’essere umano si dimentica spesso del passato, soprattutto di quello sociale.

Basta guardare cosa è successo a Washington. Se abbiamo dimenticato cosa è successo 70 anni fa, ci dimenticheremo anche di quando dovevamo mantenere una distanza sociale di sei piedi o un metro e mezzo, delle mascherine, e di tutti quelli che lo scoglio non è riuscito a reggere e salvare. 

Intanto vivrò questi giorni, unico piacevole effetto collaterale delle sgangherate scelte politiche di Donald Trump (altrimenti chi ci sarebbe mai andato ai Caraibi, per 15 giorni, in inverno, in piena emergenza sanitaria mondiale?), con la promessa di tornare su quest’isola così piccola ma così ‘facile’, quando potrò condividere l’entusiasmo e la gioia dell’essere su questo piccolo angolo di mondo tutt’altro che ostile, con il resto di un mondo che non arranca, e sorride con la stessa forza di un abitante di Aruba. Se la chiamano One Happy Island (Un’isola felice), un motivo ci sarà.  

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